Lo avevamo incontrato quando ci raccontò i suoi 940 km sul Camino di Santiago. Stavolta più che in lunghezza si è andati in altezza. Partendo dal ricordo di un cartone animato…
MPRUNETA – “Siete sicuri che non sarà un po’ antipatico scrivere un altro articolo su di me?” ci chiede realmente preoccupato Niccolò Cioni, quando lo contattiamo per farci raccontare la sua nuova avventura. La scalata del Kilimangiaro.
Avevamo già parlato con il giovane imprunetino (proprietario insieme al padre e al fratello della “Macelleria Cioni” alle Cascine del Riccio) qualche mese fa, quando ci parlò del Camino di Santiago intrapreso in solitaria durante l’estate, emozionando noi e moltissimi dei nostri lettori. E adesso, il Kilimangiaro.
Dopo averlo… “rassicurato”, inizia a raccontarci questa nuova avventura.
“Sono arrivato in Tanzania il 18 febbraio – dice – e questo viaggio è durato 9 giorni. Di cui quattro per salire, due per scendere, e l’ultimo per goderci il safari in uno dei pachi più belli dell’Africa, il Tarangire National Park. Ci sono più sentieri per scalare il Kilimangiaro: quello intrapreso da me è stata la Marangu Route”.
“Come probabilmente tutti noi – prosegue – ho conosciuto il monte Kilimangiaro da bambino, dal cartone animato Il Re Leone, quando già nelle prime scene si scorge una grande montagna che svetta dietro agli animali che brucano all’alba: questa immagine mi è sempre rimasta impressa”.
“Poiché le coincidenze non esistono – dice, con un concetto che lo aveva accompagnato per tutto il Camino – a dicembre incontro a cena un mio amico, che aveva intrapreso la scalata del Kilimangiaro, e proietto tutta la mia attenzione su di lui. Tornato a casa apro Google, e inizio a reperire informazioni per poterlo fare”.
“È importante dire che il Kilimangiaro è un parco protetto – specifica – e non è possibile andarci in autonomia, ma l’ingresso è consentito solo a gruppi guidati da un supervisore. Trovo subito un gruppo in partenza per febbraio, e fortunatamente mi accettano. In pochi giorni preparo tutti i documenti necessari e mi butto in questa avventura”.
“Oltre ad andare in gruppi – sottolinea – per intraprendere l’ascesa è necessario essere allenati: io non ero certo al pari di alcuni miei compagni di gruppo, come maratoneti, runner agonistici, triathleti, ma comunque mi ritengo una persona allenata con una buona conoscenza della montagna. E nonostante tutto… il mio allenamento non è stato sufficiente per evitare il mal di montagna”.
“Il nostro punto di partenza – inizia la spedizione – è stato dal Marangue Gate, 1.870 metri sopra il livello del mare. A differenza del Camino, in cui la difficoltà sono i sentieri, qui la difficoltà principale è stato il dislivello. Per questi motivi, a differenza del camino, ogni escursionista ha un proprio zaino, ma dovendo portare attrezzatura più ingombrante e più disparata, specie l’abbigliamento che deve coprire temperature dai -15C° a +30C°, vi sono le figure fondamentali dei portatori, ovvero coloro che portano lo zaino al posto tuo fino a 15 Kg”.
“Altra figura fondamentale di questo viaggio – tiene a dire – la nostra guida Thomas, un leader nato, sempre con il sangue freddo e pronto a incoraggiarci nelle situazioni più difficili. Senza di lui non sarebbe stato lo stesso”.
“Al termine di ogni giornata di salita – ci racconta la routine dell’ascesa – sostavamo nei campi attrezzati, ovvero piccole case in legno con letti a castello e aree comuni, refettori e bagni. È scontato dirlo ma, in mezzo all’Africa, a quelle altitudini, non esistono comfort: non c’era nemmeno l’acqua corrente per lavarsi. Tuttavia, questa situazione di stato selvaggio ha contribuito a fortificare il gruppo ancora di più. Gruppo che, nonostante fosse composto da persone molto diverse, è stato fin da subito molto compatto, soprattutto nelle situazioni di difficoltà. Nessuno è mai rimasto indietro e tutti si sono sempre prodigati per l’altro quando ce n’è stato bisogno”.
Sembra di essere accanto a lui sul sentiero mentre racconta: “La scalata vera e propria, seppur difficile, è stata incredibile, a partire dal panorama: la prima tappa si svolge all’interno di una vera e propria foresta pluviale, non la classica Africa arida che conosciamo. Dalla foresta abbiamo attraversato la brughiera, fino al deserto alpino, dove tutta la vegetazione era bruciata e il suolo era completamente arido. In questo cambio di scenario vedevamo sempre più vicina a noi la vetta del Kilimangiaro, uno spettacolo incredibile. Tutto la scalata è stata accompagnata da una parola, quasi un inno “Pole, Pole”, che in lingua swahili significa piano piano”.
“Pole, pole, piano, piano – ci spiega – perché è importante non andare in crisi di ossigeno e in affanno, per evitare il mal di montagna. Ecco perché è importante essere allenati prima della scalata: è molto frequente il mal di montagna, ovvero l’insufficienza di ossigeno, che porta al rischio di ipossia, nausea, capogiri e così via”.
L’ultimo tratto è stato quello più difficile ma anche quello più bello: “Siamo partiti alle undici di sera dal campo base di Kibo Hut, a 4.700 metri, con un abbigliamento tale da poter sopportare la temperatura che avremmo trovato alla cima, ovvero -16 C°, percepiti -25 C°. La luna splendeva nel cielo e illuminava il sentiero, si vedeva solo un serpente fatto delle torce portate dalle persone, uno spettacolo assurdo”.
“In questo tratto – torna con la memoria a quei momenti – in molti sono stati colpiti dal mal di montagna, e anche io a un certo punto non mi sentivo molto bene. Per tenerci svegli la guida e i portatori intonavano canti in lingua locale, nel silenzio della montagna, oltre ad assistere ciascuno di noi. Poi, come per magia, è sorto il sole da dietro la vetta e abbiamo iniziato a star meglio, come ci aveva preannunciato Thomas. Siamo arrivati a destinazione, a Uhuru Peak, a 5.895 metri sopra il livello del mare. C’erano -16 C°, il vento era gelido, il terreno sassoso, ma è stato uno dei giorni più belli della mia vita. Per la nostra salute siamo rimasti in cima solo poco tempo, per poi iniziare la discesa, avvenuta in due giorni”.
“Sarebbe banale raccontare cosa mi ha lasciato – riflette – perché esperienze di questo tipo, così come il Camino, non ti lasciano qualcosa, ti cambiano nel più profondo dell’anima. Durante l’ascesa del Kilimangiaro ho trovato, anzi, ho conosciuto me stesso, le mie necessità, il mio io più interiore e intimo. Questa esperienza mi ha portato a concludere (o forse solo a iniziare) un percorso, un lavoro su me stesso”.
“Sono stato per troppo tempo prigioniero degli standard della società – conclude Niccolò – che alla mia età ci ritiene realizzati solo se sposati e con figli. Io invece, non avendo ancora raggiunto questo traguardo (e sebbene lo desideri), mi ritengo realizzato facendo esperienze che mi fanno stare bene, mi fanno crescere e mi fanno capire chi e cosa voglio essere, come lo voglio, e quando. Per questo motivo… sto già pensando alla prossima avventura”.