Tutti i Cioni nel Mondo

Fabio CIONI

di Valerio Marchetti - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)

CIONI, Fabio. – Nato a Grosseto intorno al 1520 da “persone honorate” (una modesta famiglia di commercianti), frequentò a Siena là scuola superiore di notariato annessa all’università. Ritornato a Grosseto dopo il compimento degli studi, fece per qualche tempo il maestro elementare in attesa di poter esercitare la professione alla quale era stato abilitato. Dalla raccolta dei rogiti conservata nell’Archivio di Stato di Siena risulta che svolse funzione di pubblico notaio dal 30 marzo 1562 fino al 30 apr. 1568.

Nel 1544 il C. si legò al circolo filosofico-religioso dei medico senese Achille Benvoglienti e seguì l’insegnamento protestante che vi si impartiva intorno alla teoria della giustificazione per sola fede sulla base della ochiniana Lettera alla Balia (Ginevra 1543) divulgata dal “seminatore di heresie” Girolamo Pieri.

Una volta raggiunta la completa conoscenza della religione riformata, egli cercò di conformare tutta la propria esistenza alle idee che professava. Rinunciò alla frequentazione delle chiese e all’osservanza del culto cattolico. Se qualche volta andava a messa era solo per testimoniare pubblicamente la propria differenza con fessionale: ostentava infatti “disprezzo” nei confronti della credenza nella presenza reale della carne e del sangue di Cristo nell’eucaristia. Nell’ambiente “naturale” della riproduzione semplice, delle Idee e dei comportamenti sociali e religiosi cercò di legare l’educazione dei propri figli alla dottrina protestante rifiutandosi di insegnare loro tutte quelle preghiere “che non erano necessarie”. Volle inoltre liberare la sua casa dalla superstizione pagana bruciando l’iconismo familiare o apponendo alle immagini il motto veterotestamentario: “Simulacra gentium argentum et aurum opera manuum horninum”, perché riteneva si trattasse di pratiche contrarie alla legge divina e non credeva che i santi potessero intercedere per gli uomini presso Dio. Combatté il, formalismo precettistico cattolico praticando polemicamente il contrario come attestazione della libertà cristiana e lottò contro le ricadute nell’ambito del “magico” di alcuni più deboli correligionari. Restò fedele a Erasmo, che aveva conosciuto all’inizio della propria esperienza pirituale tramite uno studente francese aggregatosi al gruppo riformato grossetano, conservando sempre presso di sé alcuni ospuscoli e la sua edizione del Nuovo Testamento. Sull’atteggiamento assunto nell’ambito del proprio lavoro non abbiamo notizie molto precise. Sappiamo soltanto che il C. cercò di trasmettere ai suoi discepoli il valore sacramentale della commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo al posto della transustanziazione cattolica. Per questo suo comportamento nella società, nella famiglia, nel lavoro, il C. veniva unanimemente indicato come uno di “mala opinione” nelle cose della religione: un “luteranaccio”.

Il gruppo al quale il C.. si era aggregato (una conventicola borghese di una dozzina di persone: quattro senesi, quattro grossetani, quattro stranieri) si formò ideologicamente sulla base della lettura diretta dell’Institutio Christianae religionis di Giovanni Calvino e sui commentari ai Vangeli (“Tutte le oppinioni che in quel libro si trovavano si tenevano da noi per vere e per buone”) e aveva coscienza della propria collocazione religiosa nell’ambito del protestantesimo europeo. Strettamente riformate erano le dottrine professate intorno al rapporto tra la fede e le opere nella giustificazione dell’uomo (“Le opere nostre buone non sono meritorie, né di alcun valore, ma’solo sono segni demonstrativi della fede”); sulla cena del Signore (“La eucaristia è solo commemoratione della santissima passione di nostro signore Gesù Christo e non sacramento reale”); sulle indulgenze (“La vera indulgentia consiste nelli soprabundati meriti di nostro salvator Gesù Christo”); sul purgatorio (“Il ver purgatorio è stato il sangue di Christo Gesù e doppo la morte non v’è purgatorio alcuno”); sull’intercessione dei santi (“Li santi non possono pregare per noi e noi non dobiamo pregarli che sieno in nostro aiuto apresso a dio”). Ma si può dire che in tutte le discussioni religiose avviate durante le riunioni del gruppo si rifietteveno – secondo il resoconto del Benvoglienti e del C. – le linee fondamentali della critica riformata dei cattolicesimo nel suo aspetto dottrinale e pratico: la struttura autoritaria della Chiesa e la potestà del pontefice romano, che viene considerato semplicemente come un qualsiasi altro vescovo della Cristianità; la validità della confessione come sacramento e la sua liceità dì instaurare valori di scambio con la divinità: voti contro benefici; l’opportunità di scegliere uno stato esistenziale in contrasto con le leggi della natura e con l’insegnamento evangelico (il celibato); la moralità sessuale degli ecclesiastici per i quali è molto maggior peccato la condizione matrimoniale che la pratica dell’adulterio; le cerimonie liturgiche come residuato pagano e addizione umana alla parola divina.Se il gruppo al quale il C. aderiva fosse stato una vera chiesa riformata, cioè se avesse effettivamente praticato la “cena del signore” come segno distintivo dell’esistenza di una comunità ecclesiale, è difficile affermarlo. La chiarezza teorica della confessione di fede sulla commemorazione, l’esistenza del ministero della parola nelle mani di un predicatore ispano-napoletano di nome Aloisio e di un propagandista veneziano chiamato Marcantonio, la compattezza della conventicola che era legata tramite il Pieri, alla “ecclesiola” fondata da Basilio Guerrieri a Siena, potrebbero tuttavia far sospettare la presenza di una comunità di laici che si considerava “chiesa” secondo la concezione riformata. La conventicola comunque durò fino al 1552. Una volta scoppiata la guerra tra Siena e Firenze, il Benvoglienti se ne andò da Grosseto e il gruppo si sfaldò rapidamente lasciando solo degli esiti a carattere individuale. Da questo momento in poi il C. entrò nella fase nicodemitica della sua esistenza: riprese a frequentare le chiese, ma continuò a coltivare dentro di sé le idee riformate alle quali aveva aderito. Questa condizione provocò un progressivo allentamento della tensione religiosa ereticale e un adeguamento alle istituzioni nelle concezioni ritenute non necessarie alla salvezza. Secondo una propria ammissione il C. era cosciente di dover frequentare la vita religiosa della società in cui agiva limitando alla sua famiglia la professione della verità evangelica.

Il C. venne denunciato come eretico al tribunale dell’Inquisizione senese, diretto dal francescano Pietro Fusi da Saronno, nel settembre del 1568, quando si cominciò a ricostruire la trama del dissenso che si era verificato negli anni precedenti. Autore della delazione fu un certo Fabio da Pienza il quale accusò il C. di aver “dato delle pugnalate a una immagine della madonna”; di contravvenire ai precetti ecclesiastici sul digiuno e sui cibi proibiti (“magna carne il venere e il sabbato”); di rifiutare la liturgia cattolica. Furono interrogati numerosi testimoni che contestarono le negazioni dell’imputato. Di particolare importanza fu la denuncia fatta dal procuratore penitenziale Camillo Fanucci a Roma, dalla quale risultava che il C. anche di recente era stato implicato nel dissenso religioso. In occasione infatti della predicazione contro l’esistenza del purgatorio fatta da Giacomo Nerucci da San Gimignano, frate agostiniano del monastero eremitano di S. Martino di Siena, il C. aveva pubblicamente sostenuto la correttezza di quella tesi contrarla. all’insegnamento cattolico.

Catturato dal braccio secolare e incarcerato nella prigione dell’Inquisizione senese, il C. venne sottoposto a vari interrogatori (dal 10 sett. al 9 dic. 1568) riuscendo sempre a non rivelare nulla intomo alle proprie opinioni religiose eterodosse e ai complici dell’esperienza riformata grossetana. Sottoposto alla tortura il 9 dicembre, egli finì col rivelare le dottrine alle quali aveva creduto e i nomi. dei propri compagni di fede, Oltre alla struttura ideologica e organizzativa del gruppo calvinista al quale aveva aderito.

Tutte le tesi religiose espresse dal C. a nome della conventicola trattengono in sé, se non altro nell’impostazione più elementare e nelle linee essenziali, una fisionomia di carattere protestante riconducibile alla Chiesa ginevrina. L’eventuale diluizione dottrinale di alcune affermazioni è determinata dalla necessità di occultare un’esperienza ereticale che apparteneva al passato. Tanto più che quelle credenze non avevano ormai rispondenza nella coscienza dell’imputato. Di fatto, nonostante tutte le imprecisioni dottrinali che si possono sempre trovare nella sua confessione del 1568 (che così come è espressa non segna il limite conoscitivo del suo pregedente calvinismo), bisogna riconqscere che intorno ai “fundamentalia fidei” il C. aveva sempre conservato un punto di vista correttamente riformato, almeno finché il gruppo agì come “chiesa”. Se qualche dubbio poteva finora rimanere agli studiosi era perché si disponeva soltanto di una – quella più mistificata – delle deposizioni rese al tribúnale dell’Inquisizione, cioè il sommario dei Benvoglienti.

La denuncia che il C. fece dei suoi collaboratori, in particolare quella di Achille Benvoglienti, provocò Pintervento delle autorità civili e ci resta un copioso epistolario tra il governatore della città Federico Montacuto e. il granduca Francesco I, utile per la comprensione dei rapporti tra lo Stato toscano e quello pontificio in materia di religione (cfr. P. Piccolomini, Documenti …).

Il C. fu condannato alle galere a vita nella marina granducale. Fece la pubblica abiura, dopo aver percorso, “cum solito habitello” giallo, le principali vie di Siena, il 27 febbr. 1569 nella piazza di S. Francesco davanti alle autorità religiose e civili e a tutto il popolo radunato. Non sono noti il luogo né la data della sua morte.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Siena, Notarile antecosimiano 3206 (istrumenti), 2787 (processo); P. Piccolomini, Docum. fiorentini sull eresia in Siena durante il sec. XVI (15591570), in Bull. senese di storia patria, XVII(1910), pp. 170-188; V. Marchetti, L’archivio dell’Inquisiz. senese (Rendiconto di una ricerca in corso), in Boll. d . Soc. di studi valdesi, XCIII(1972), 132, p. 81;Id., Gruppi ereticali senesi…, Firenze 1975, pp. 74-83 e passim.

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