di Adelfo Cecchelli (Gente di Gaggio)
La galleria dei personaggi che hanno segnato la vita di Gaggio, pur non usufruendo delle luci della ribalta, continua con questo articolo dedicato a Dino ed Ermelinda Cioni.
Dino Cioni ed Ermelinda Cioni appartengono a due famiglie Cioni non legate da una stretta parentela. Don Oreste Marchi fece le debite ricerche, quando si sposarono nel 1949, per appurare che non ci fossero vincoli parentali. Abitano nel piccolo borgo del Crociale esattamente al piano superiore del caseggiato che ospitava fino agli anni Ottanta, lo spaccio di sali e tabacchi, con annessa osteria.
Quando li vado a trovare sono contenti di parlare e raccontano dei tempi andati. Negli anni Trenta- mi diceva in uno dei nostri incontri l’Ermelinda – “non c’era il traffico dei nostri giorni: le automobili erano rarissime. Ne aveva una il dottor Stefano Filippi, una Balilla, Quanto è stato bravo e affettuoso con tutti noi! Regolarmente transitava Giuseppe Peri con il suo carro trainato dal suo cavallo Aldo: La strada non era asfaltata e i pochi mezzi sollevavano un bel polverone. Rari ciclisti si fermavano per bere qualcosa. Al sabato e alla domenica passavano gli uomini che andavano al mercato a Porretta.
C’era, come oggi, la fermata della corriera – ne passava una al giorno – quella di Gualandi & Passini. Ora l’esercizio è chiuso e l’edificio è stato ben ristrutturato dal nuovo proprietario, Romelio Bellettini. Eh! Non c’è più la vitalità di una volta! Lo spaccio del Crociale allora era gestito da Silvio Brasa (1), fratello di mia madre Evelina e di mia zia Amelia che si è sposata con Lenzi di casa Marchetti, i genitori di Giorgio del Crociale. Mia madre era figlia di Aurelio detto Enrico (1874) e di Clorinda Tomasi, emigrati in America, dove si erano sposati. Evelina era nata a Hartshorne, Oklahoma, Usa, il 29 luglio 1902.
Nell’archivio della Parrocchia di Gaggio, nel libro 11 dei battezzati, è trascritto l’atto di battesimo registrato il 5 ottobre 1902 ad Hartshorne, Oklahoma, Usa.:
Brasa Evelina nata il 29 luglio 1902, figlia di Enrico e di Clorinda Tomasi, è stata battezzata il 5 ottobre 1902 nella chiesa del S.S Rosario dal Rev.do F.J. Schaaf e tenuta al sacro fonte da Silvio Brasa di Eugenio e da Maria Tomasi fu Sante. In fede che il presente certificato è estratto registro dei battezzati della Parrocchia S.J. Hartshorne, Okla. Lo ho munito del parrocchiale e firmato A.D. 1920 – P.J. Davlin.
Nota 1: Silvio Brasa , cugino di Enrico, era nato alla Gazzana di Gaggio il 10 dicembre 1866 da Eugenio e da Domenica Bettocchi. Silvio si era sposato in prime nozze con Stella Tonelli l’11 aprile 1891. Rimasto vedovo si risposò negli Stati Uniti con Valentina Genova.
Evelina venne in Italia all’età di sei anni, (sua madre Clorinda era morta nel metterla al mondo) e andò a vivere con i nonni Brasa al Crociale Contrasse matrimonio il 17 luglio 1920 con Giuseppe Cioni di Gaggio E’ evidente che l’atto di nascita, che porta la data del 1920, è stato redatto in occasione del loro matrimonio.
Non saremo mai sufficientemente grati a don C.E. Meotti per le preziose trascrizioni che ha apportato ai registri dei battezzati, dei matrimoni, dei cresimandi e dei defunti dell’archivio parrocchiale di Gaggio. Come in questo caso, le sue indicazioni e annotazioni rendono possibile la scoperta di avvenimenti importanti quali le parentele, le relazioni che contribuirono all’emigrazione ecc.
Il padre di Ermelinda è Giuseppe Cioni, uno dei “ragazzi” che parteciparono appena diciottenni alla prima guerra mondiale. Hanno scritto di lui i ragazzi delle Terze Classi della Scuola Secondaria di Primo Grado dell’Istituto Comprensivo “Salvo d’Acquisto di Gaggio Montano nel volume “La Grande Guerra” (uscito in contemporanea con l’omonima mostra allestita nella biblioteca comunale di Gaggio con la collaborazione di Bruno Rovena e di Aniceto Antilopi). Gli studenti guidati dalle loro insegnanti e da Bruno Rovena hanno realizzato un piccolo capolavoro di ricerca.
Giuseppe Cioni detto “Cionii” era nato a Gaggio Montano il 22 luglio 1898 da Giuseppe e da Caterina Bernardini. Partecipò come fante alla prima guerra mondiale. Era un personaggio di grande cordialità che riusciva a fraternizzare con tutti. Nel 1968 fu insignito dell’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto come riconoscimento dei suoi meriti di soldato. Giuseppe Cioni è morto nel 1981.
I Cioni abitavano alla Grilla dove sono nati i loro cinque figli: Alberto (1921, sposato a Corinna Capitani, Letizia (1923, sposata a Giuseppe Zaccanti), Ermelinda (1925), Gina (1932) sposata a Luigi Mattioli, un figlio Gabriele), Rosalba (1939 + sposata a Giovanni Lenzi di Casa Marchetti, un figlio Raffaele e una figlia, Manuela). Giuseppe lavorava la terra come bracciante. “Ogni tanto era dovuto ritornare a casa con il piccone ed il badile in spalla perché qualcun altro aveva preso il suo lavoro”.- Mi dice Ermelina. La nuova famiglia è rimasta vicino ai nonni paterni fino a quando sono rimasti in vita poi, durante la seconda guerra, nel 1944, quando tutti scappavano verso la montagna per sfuggire ai bombardamenti ed ai rastrellamenti, Evelina e Giuseppe si trasferirono al Crociale nella casa dei parenti della sposa
Dino invece è originario dei Lagoni dove è nato il 13 ottobre 1923. Suo padre era Enrico (1900) e sua madre Pia Stanzani. Dal matrimonio di Enrico e Pia sono nati tre figli: Dino 1923, Virginia, 1925 sposata Mattioli. Vive a Riola. L’altro fratello è Luigi (1928 – 2004?) sposato a Paola Ardeni (figlia dell’indimenticabile Nello). I loro figli sono Alessandro e Antonella.
I nonni di Dino erano Luigi Mariano di Vincenzo e Rosa Ricci. Luigi Mariano era nato a Casa Poli e si sposò in prime nozze con Virginia Gualandi di Grecchia che morì nel 1915. Luigi si risposò con Maria Caterina Bernardini nel 1921 di Lizzano.
Dino, negli anni Trenta, alla pari di tanti suoi giovani compaesani, si dà da fare come può: aiuta i suoi genitori nei lavori dei campi e di casa: ai Lagoni c’è una bella vigna che è da seguire. Inoltre Dino s’ingegna a fare di tutto: ore “a opera” quando capita. Infine trova occupazione, per diversi anni, alla Daldi & Matteucci di Porretta Terme. Nello stesso periodo la giovanissima Ermelinda si adopera ad aiutare i genitori e in lavori occasionali retribuiti.
Dino venne chiamato alle armi a diciannove anni e quattro mesi. Raggiunse il suo reggimento a Cosenza il 18 gennaio 1943 dove restò fino all’inizio di maggio quando dopo il trasferimento, in treno a Brindisi, s’imbarcò l’11 di quel mese per Cefalonia dove la sua nave attraccò il 13. Aveva già sentito parlare della guerra in atto; alcuni suoi amici erano già stati arruolati, ma non aveva nessun punto di riferimento particolare. Cioè non seguiva le vicende politiche e i veri motivi per i quali c’era quella guerra.
Per la prima volta è imbarcato su di una nave, del mare Adriatico e dell’Egeo aveva solo sentito parlare. Della Grecia aveva un vaga idea. Si ricorda che sull’isola c’erano, oltre a quelle italiane, le truppe tedesche, le milizie fasciste e le SS. Faceva parte della settima Compagnia del 317° reggimento di fanteria della Divisione Acqui. Racconta che la vita sull’isola fu molto tranquilla fino all’inizio di settembre come recita il suo Foglio matricolare e caratteristico rilasciatogli dall’Esercito Italiano (Distretto Militare di Bologna) il 31 (così è scritto nel documento) giugno 1971:
Cioni Dino figlio di Enrico e di Stanzani Pia. Di religione cattolica. N. di matricola 36290 del Distretto di Bologna (6) classe 1923:
Campagne
Ha partecipato dal 1-9-1943 al 8 -9-1943 alle operazioni di guerra svoltesi nell’isola di Cefalonia (Grecia, territori greci ed albanesi) con la settima compagnia del 317° Rgt Fanteria Acqui.
Ha titolo all’attribuzione dei benefici di cui all’art. 6 del D.L 4-3—1945 N. 137 per essere stato prigioniero delle Forze Armate tedesche dal 22-9-1943 al 20-3-1945. Trattenuto dalle Forze Alleate fino al 14 ottobre 1945.
Conferitogli la Croce al merito di guerra in virtù del R.D. 14-12-1942 n.1729 e del D.L 4-5-1942 n.571 per internamento in Germania dopo l’9-9-1943. Determinazione del Distretto Militare di Bologna in data 19-8-1969 nr. 1331/I
Viene collocato in congedo illimitato il 9 gennaio 1946.
Dino ricorda molto poco di quei giorni terribili. Fa solo un laconico commento: mi è andata bene. Però è impossibile non ricordare ai nostri lettori cosa avvenne sull’isola in quei tragici giorni
Cefalonia
(Notizie tratte dal volume n. 5 della “Seconda Guerra Mondiale” di Enzo Biagi, Gruppo Editoriale Fabbri, 1980)
L’Armistizio dell’8 settembre 1943. Alle 19.42 un annunciatore dell’EIAR interrompe un programma di canzonette (Gino Bechi sta cantando C’è una strada nel bosco). Il maresciallo Badoglio legge: “Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Il messaggio, inciso su disco, viene ripetuto ogni quarto d’ora.
Appena la eco del messaggio si diffonde a Cefalonia, l’isola greca sulla quale si trova Dino Cioni, la confusione è grande: il comunicato di Badoglio è probabilmente e volutamente equivoco. Viene infatti male interpretato sia dai soldati italiani che da quelli tedeschi che addirittura quella sera festeggiano assieme la sospirata pace raggiunta. Sono quasi undicimila i militari italiani di stanza sull’isola a testimonianza della sua importanza strategica (quelli germanici sono ancora circa 2500. Ne arriveranno molti altri nei giorni seguenti). C’è molta confusione. Il 9 settembre il generale Gandin comandante della divisione Acqui (quella a cui appartiene Dino) pare che abbia addirittura brindato con il comandante delle truppe tedesche, il tenente colonnello Hans Barge, nei locali della mensa della divisione italiana. La sera stessa da Atene arriva un cablogramma firmato dal comandante dell11a armata gen. Vecchiarelli che contiene l’ordine di consegnare le armi ai tedeschi. Si tratta di un trucco dei servizi tedeschi che ormai controllano l’intera penisola greca. Per conto loro i partigiani greci, da sempre avversi all’occupazione italo-tedesca, chiedevano incessantemente che gli italiani consegnassero a loro le armi. La situazione si fa drammatica nei giorni seguenti quando le intenzioni delle truppe tedesche sono spietatamente chiarite. Inizia una strenua resistenza da parte dei soldati della divisione Acqui. Interverranno anche i famigerati aerei Stukas che contribuiranno non poco alla resa dei soldati italiani molto meno equipaggiati dei loro ex alleati. Innumerevoli sono i caduti fino alla resa avvenuta il 21 settembre. Il 22 finiscono le ultime resistenze. Gli italiani alzano definitivamente la bandiera bianca. Lo stesso giorno vengono uccisi a sangue freddo 4500 fra soldati e ufficiali. Tra essi probabilmente anche il gen. Gandin. Nei giorni successivi vengono uccisi altri 400 ufficiali. Altri militari, come ha raccontato Dino Cioni, morirono durante il trasbordo dall’isola alla terra ferma. Complessivamente persero la vita 9646 soldati italiani.
Dino venne a sapere che molti commilitoni furono fatti prigionieri dai tedeschi, ma nessuno potè immaginare, in un primo momento quello che stava succedendo. Restò nascosto per due settimane e il 22 settembre fu catturato dai militari germanici. Poco dopo Dino e molti superstiti vennero imbarcati su di una nave e trasferiti nei pressi di Atene. Si era sparsa la notizia che molti soldati italiani che l’avevano preceduto erano scomparsi in mare in seguito all’affondamento delle navi causato delle mine disseminate nel mar Egeo.
Arrivato a destinazione fu rinchiuso in un campo di prigionieri di guerra nelle vicinanze della capitale ellenica in attesa di un definitivo trasferimento. In quel periodo Dino assieme ad altri compagni di sventura fu addetto al taglio dei boschi circostanti; il legname che tagliavano sarebbe servito ad alimentare le caldaie dei treni.
Non ci sono datti precisi, ma Dino suppone di essere stato tradotto, all’inizio del 1944, in un campo di concentramento prigionieri prima in Germania e in seguito in Polonia; ricorda solo il grande disagio provocato dalla fame: “Non c’è niente di più insopportabile. I prigionieri fanno una vita da cani. Per un pezzo di pane si vendeva tutto: orologi, catenine che pure erano preziose testimonianze dei nostri affetti. Lavoravamo nei boschi a tagliare la legna sempre per alimentare i motori dei treni. A volte riuscivamo a scovare delle bucce di patate che poi bollivamo. I contadini tedeschi usavano mettere le patate sotto la paglia perché non marcissero. A volte siamo usciti dalle baracche per andarle a prendere, ma quando fummo scoperti ci prendemmo una fila di legnate dalle guardie del campo. Cose terrificanti ho visto; durante la notte venivano portati via dalle baracche i cadaveri degli sventurati morti di chissà cosa”.
Dino, probabilmente a causa degli stenti passati in quel periodo, ha preferito cancellare dalla memoria buona parte di quel doloroso periodo della sua vita.
Evidentemente la ritirata dei tedeschi dalla Polonia nel tardo inverno 1944/45 coinvolse anche i prigionieri di guerra al seguito dell’esercito tedesco. Nei suoi ricordi emerge l’episodio di Berlino: “La città era accerchiata (dalle truppe sovietiche) e noi prigionieri riuscimmo a scappare”.
Dino Cioni come attestano i documenti militari italiani, dopo la fuga da Berlino, venne liberato, il 20 marzo 1945, dai soldati dell’Armata Rossa, assieme a un moltitudine di italiani, polacchi, russi, francesi ecc.. Ma non sono finiti i problemi con quella liberazione. I soldati russi avevano a malapena da mangiare per loro e lasciano i poveri ex prigionieri al loro destino. Dino rammenta che entravano nelle case abbandonate dai civili per procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti: “Sapevamo che in Germania mettevano la carne di maiale ad affumicare nelle canne fumarie dei camini; infatti trovammo spesso qualcosa da mangiare. I russi si limitavano, quando ne avevano a darci delle pagnotte di pane nero, malcotto, all’interno, al punto che lo avresti potuto rimpastare. Abbiamo patito la fame, il freddo e la sete, ma in qualche modo siamo riusciti a cavarcela.
La guerra è finita solo il 7 maggio 1945, ma non i nostri problemi. Finalmente dopo un poco siamo stati consegnati, noi occidentali, all’esercito americano. Tutto un altro trattamento. Sono rimasto in Germania, con gli americani, fino a novembre di quell’anno. Sono tornato a Gaggio il 18 novembre due giorni dopo i tragici “fatti di Gaggio. Puoi bene immaginare l’atmosfera che si respirava. Ho pensato, ma allora non è ancora finita?.
Il viaggio dalla Germania all’Italia lo feci, quasi per intero in camion, solo una piccola porzione fu percorsa in treno. A Bologna mi presentai al Distretto Militare dove mi consegnarono, oltre al foglio di lasciapassare (il congedo arrivò l’anno dopo), la somma di tredicimila lire. Poi con un camion, forse militare, che faceva servizio da e per Vidiciatico dove prelevava legname, riuscii ad arrivare. Scesi proprio davanti a casa, ai Lagoni. E’ immaginabile la sorpresa dei miei familiari; da quasi due anni non avevano più avuto mie notizie. L’ultima informazione era arrivata ai miei, tramite la Croce Rossa Italiana alla quale avevo consegnato un foglietto nei primi tempi della mia prigionia in Germania”.
Il dopoguerra a Gaggio
Nell’immediato dopoguerra la situazione a Gaggio era veramente critica: le ferite fisiche e morali erano di proporzioni eccezionali. Forse mai il nostro Appennino, i nostri borghi, avevano vissuto mesi così tragici. Si prospettava non solo la miseria più
nera (alleviata solo in parte dalle regalie dei soldati americani). Quella guerra, nessuno se n’era ancora accorto da noi, aveva segnato il cambiamento di un era. Cambieranno i costumi, anche il modo di vestire, di lavorare, il cibo, la musica. Per alcuni anni nessuno avvertì quel fenomeno perché tutti erano impegnati a sfamarsi e a riparare le grandi ferite. Molti nostri compaesani emigrarono alla ricerca di un lavoro: alcuni partirono con le famiglie, ma la maggior parte di loro se ne andò sola. Riprese il flusso migratorio che aveva segnato così crudamente la vita delle nostre montagne a cavallo dei due secoli. Le destinazioni? Francia, Svizzera, Sud America, Australia, Belgio, Stati Uniti; tanti se ne andarono nelle città vicine: Pistoia, Prato, La Spezia, Bologna, Modena. Singolare l’emigrazione nel capoluogo emiliano: i gaggesi crearono spontaneamente una piccola colonia attorno alle due stazioni della Porrettana più vicine a noi: Casalecchio e Borgo Panigale.
Per affrontare quella emergenza i governi di allora presero iniziative come il “Piano Fanfani”: gli operai e i braccianti disoccupati avevano la possibilità di lavorare una “quindicina” con il compenso di 500 lire giornaliere. Erano poche, ma servirono alla sopravvivenza di molta gente.
Dino ed Ermelinda, com’era sempre stata loro abitudine, furono solerti e si diedero da fare: lui lavorava, anche se saltuariamente, per diverse imprese di costruzioni della zona di Gaggio e di Lizzano. Lei aiutava i suoi e per altre famiglie nel disbrigo dei più svariati lavori.
Nel 1949, una volta sposati andarono a stabilirsi temporaneamente a casa di lui, ai Lagoni. Nel 1951 con l’elezione di Arnaldo Brasa a sindaco di Gaggio la loro vita subisce una svolta:. Vincenzo “Cenzino” Franchi è la guardia comunale e uomo di fiducia del sindaco. “Cenzino” capisce le doti di Dino e si preoccupa di dargli, quasi regolarmente, degli incarichi a ore: lavori di muratura, giardinaggio, manutenzione. L’appellativo di “Sindaco dei fiori” non piaceva granché al mitico Arnaldo nonostante il suo amore per le piante, l’ordine e la bellezza. Non appena i problemi più urgenti del lavoro e dello sfamarsi furono risolti, Brasa pensò bene di ingentilire il suo paese. Dino si prestò come pochi a quell’opera ed al altri duri lavori. Finalmente nel 1958, per i meriti acquisiti e per la stima meritata di Arnaldo e Cenzino, Dino diventa dipendente comunale. Appassionante è il suo racconto relativo agli scavi realizzati dalla sorgente delle Arpolle,nei pressi della Canevaccia, fino a Gaggio. “Portammo le tubature fino alla cima del monte Le Vedette affinché trovasse la spinta per scendere verso il capoluogo. Che impresa fu! Arnaldo era veramente un tipo indomabile. A volte mi chiamava durante la notte per andare a controllare che la distribuzione dell’acqua fosse corretta”.
Ermelinda diventa dipendente del Comune nel 1960, con mansioni di bidella delle nuove scuole costruite accanto al nuovo edificio comunale.“Abbiamo avuto la fortuna di lavorare, per oltre vent’anni, con Arnaldo Brasa che è stato per noi più di un fratello maggiore. Assieme a lui i suoi più stretti collaboratori: Vincenzo “Cenzino” Franchi, Gino Cecchelli, Beppe Corsolini, Antonietta Vitali, Giacomo Calistri, Tonino Zaccanti. Non li dimenticheremo mai come non dimentichiamo i segretari comunali che si sono succeduti in quegli anni e con i quali abbiamo avuto ottimi rapporti: Giuseppe Donati, Sauro Vivarelli e Giuseppe Bellipanni e le loro famiglie con le quali siamo vissuti porta a porta all’ultimo piano del palazzo comunale. Ah quante storie ci sarebbero da raccontare.Ermelinda aggiunge: “E’ stato bellissimo lavorare con i bambini delle scuole. Ho avuto tante soddisfazioni da loro. E il direttore, il professor Giampaolo Arienti che persona fantastica: educato, buono e corretto! Quegli anni sono trascorsi con la velocità del lampo. – Dino annuisce con il capo -. Dino vuole ricordare anche due colleghi con i quali ha avuto un ottimo rapporto: Aldo Maggi e Pietro Zaccanti. Un pensiero particolare oltre che al dottor Stefano Filippi, medico condotto “storico” di Gaggio va all’’altro medico che gli è succeduto e cioè Medardo Amaduzzi.
Dino ed Ermelinda che da oltre vent’anni abitano al Crociale, appartengono alla ristretta schiera degli associati più fedeli e generosi di “Gente di Gaggio”. In proposito vorrei raccontare, con il loro permesso un gustoso episodio. Anni fa Bruno Tommasi trovò una foto del padre di Dino a lui sconosciuta. Zitti zitti la facemmo incorniciare a Porretta e gliela portammo.Ermelinda e Dino si commossero alla vista di quella immagine che non conoscevano. Dino si ritirò nella saletta adiacente la cucina e ritornò con una banconota di grosso taglio. Ci affrettammo a scrivere la ricevuta al che Dino insorse e disse: <Eh no! Questi sono per voi non per “Gente di Gaggio”>. – Avemmo il nostro daffare per convincerlo che non potevamo incassare quei soldi. Erano per “Gente di Gaggio”. Fu a quel punto che Dino ritornò nella saletta e dopo qualche minuto riapparve con due foto: “Potresti farmi incorniciare anche queste? Io non saprei proprio come fare” Erano foto di suo padre e della sua famiglia.
Trascorsero due settimane e finalmente riportammo le foto incorniciate. Contento e dopo aver bevuto un mezzo bicchiere di vino, Dino si diresse verso la saletta. Ne ritornò pochi minuti dopo con in mano un grande sacco di plastica. Dentro c’erano due meravigliosi conigli, puliti e spellati; pronti per la cottura insomma. Erano solo da scongelare:
“Quisti què tu n’i dee mia a “Gente di Gaggio”.
Fonte: Dino e l”Ermelinda di Adelfo Cecchelli, pubblicato in Gente di Gaggio (www.gentedigaggio.it) n. 36 dicembre 2007 pag. 127-135