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Una città chiamata Scione

LA GUERRA DEL PELOPONNESO

Libro Quarto (CAP 120-133)

120. Proprio durante quei giorni, in cui si concretavano gli accordi di tregua, Scione, una città nella penisola di Pallene si ribellò agli Ateniesi, accostandosi a Brasida.

Gli Scionesi sostengono di trarre origine da Pellene nel Peloponneso. I loro avi, veleggiando da Troia, sarebbero stati spinti da una tempesta (quella stessa che travolse gli Achei) su queste rive, dove posero la propria sede. Quando la rivolta era già in atto, Brasida passò di notte a Scione. Gli faceva strada una trireme alberata; a bordo di un battellino Brasida seguiva a distanza. Con questo scopo: se una nave più forte intercettava l’imbarcazione piccola, avrebbe dovuto vedersela con la trireme di scorta. Nel caso poi che comparisse una nave da guerra di uguale stazza, a suo avviso non si sarebbe gettata sulla lancia, ma sull’altra nave: e lui frattanto si sarebbe messo in salvo. Compiuta la traversata, raccolse un’assemblea di Scionesi e ripeté un discorso simile a quello tenuto in Acanto e a Torone. Ma vi espresse in aggiunta la sua stima altissima, poiché incuranti del fatto che Pallene costituiva ormai una sacca sull’istmo, serrata dalle forze ateniesi che occupavano Potidea, e che quindi, in pratica, essi abitavano una vera e propria isola, con spontaneo impeto avevano teso le braccia alla libertà senza attendere, come gli animi bassi, il colpo di sferza dell’estremo bisogno per appropriarsi di una fortuna così preziosa, così limpida. E Brasida considerava questo atto un indizio dell’ardimento con cui avrebbero fronteggiato, da uomini, ogni altra prova, anche la più impegnativa. Se il corso degli eventi si poteva regolare secondo i suoi disegni li avrebbe tenuti per i più sinceri e fidi alleati di Sparta: e il loro prestigio si sarebbe levato luminoso ai suoi occhi.

121. Commozione e fierezza scossero gli Scionesi a questo elogio, vibrando tutti come un’anima sola, anche quelli che prima guardavano ostili al nuovo corso politico. Decretarono uno sforzo bellico vigoroso e in quanto a Brasida, oltre ad accoglierlo con ogni fervido sentimento, in una cerimonia pubblica lo cinsero con un diadema d’oro, esaltato a liberatore di Grecia; e a titolo personale gli consacrarono l’onore di corone e primizie, come a un atleta vittorioso. Brasida lasciò subito nella città un presidio e passò di nuovo a Torone; non impiegò molto a traghettare un corpo di truppe più solido, risoluto, con queste forze, a saggiare la resistenza di Mende e di Potidea. Si aspettava che gli Ateniesi, considerando Scione un’isola, accorressero di volo, e intendeva precorrerli. Frattanto avviava relazioni e trame anche in questi centri per minarne la difesa con il tradimento.

122. Già era Brasida sulle mosse per investire queste città: ma proprio in quell’ora lo raggiungono i corrieri che con una trireme compiono il giro per notificare la tregua intercorsa. A rappresentare gli Ateniesi c’era Aristonimo, gli Spartani Ateneo. Così l’armata di Brasida riprese la via di Torone, mentre la commissione rendeva ufficialmente presenti a Brasida gli articoli del patto. Tutte le località alleate di Sparta sulla costa tracia si attennero alla risoluzione. Aristonimo si mostrò pago di questo contegno delle città: ma negò che i benefici del trattato si potessero considerare estesi anche agli uomini di Scione, poiché computando i giorni s’era avveduto che la rivolta era esplosa in ritardo rispetto alla consacrazione del patto; Brasida contrappose molti argomenti, a dimostrare che il moto precedeva nel tempo l’armistizio, e non cedeva la città. Quando Aristonimo segnalò lo stato dei fatti ad Atene, la città si mise subito all’opera per allestire una spedizione punitiva contro Scione. Missione immediata di ambasciatori spartani: ad avvertire che la tregua sarebbe stata infranta. Sparta, che confidava in Brasida, rivendicava la città: tuttavia si sarebbe di buon animo sottoposta a una sentenza arbitrale. Atene respinse il rischio di un arbitrato: si salpasse subito piuttosto, armi alla mano. Si fremeva di collera ad Atene, se ora anche gli isolani pretendevano di staccarsi, sedotti dalla potenza militare terrestre di Sparta, inefficace in questo genere di conflitto. Del resto, la verità sulla rivolta di Scione convalidava, piuttosto, il vibrato reclamo ateniese: giacché era divampata due giorni posteriore al patto. Con votazione rapida, aderendo a una proposta di Cleone, gli Ateniesi ratificarono un decreto: atterrare Scione ed eliminarne gli abitanti. Interruppero le azioni negli altri teatri di guerra e si concentrarono su questo settore.

123. Frattanto Mende si ribella. È una città della Pallene, colonia degli Eretri. Brasida fu pronto subito a garantirne la protezione, ritenendo di non commettere un’irregolarità trascurando la circostanza clamorosa che, vigendo la tregua, i Mendei erano passati dalla sua parte. Disponeva anche lui di motivi fondati di recriminazione nei confronti di Atene che non si era, in tutto, attenuta alle clausole. Onde raddoppiò l’ardire in quelli di Mende, vedendo la prontezza franca di Brasida e, inoltre, traendo fiducia dall’episodio di Scione: si poteva giurare che non li avrebbe traditi. Intanto, un nuovo particolare: operavano tra loro partigiani di Brasida (una pattuglia trascurabile però) i quali già, in procinto d’agire, non potevano più concedersi esitazioni: incombeva il pericolo di morte se il complotto era svelato. Così sforzarono la folla ad abbracciare un partito che i più non condividevano. In un lampo la voce corse ad Atene: lo sdegno s’inasprì, febbrile e cupo, mentre ci si preparava a muovere in armi contro le due ribelli. Brasida intanto è allerta: le vele nemiche possono sorgere di ora in ora dal mare. Fa passare ad Olinto di Calcide, al sicuro, le donne e i piccoli di Scione e di Mende: vi distacca cinquecento opliti peloponnesi e trecento peltasti di Calcide, affidandone la direzione generale al Polidamida. Gli uomini di Mende e di Scione si industriavano a forze collegate per approntare la difesa: ché la minaccia ateniese pareva loro imminente.

124. Intanto Brasida e Perdicca si volgono contro Arrabeo, piombando una seconda volta su Linco. Perdicca era alla testa delle sue forze macedoni e di quelle oplitiche dei greci di Macedonia; Brasida, oltre ai reparti di cui disponeva ancora di truppe del Peloponneso, dirigeva contingenti di Calcide, di Acanto, delle altre città, forniti in proporzione alla potenza di ciascuna gente. Lo schieramento oplitico dei Greci comprendeva in complesso tremila uomini. Al seguito la cavalleria Macedone, rafforzata da quella di Calcide: un nerbo di circa mille cavalli. Seguiva un nugolo sconfinato di combattenti barbari. Irruppero nei confini di Arrabeo e vistisi fronteggiati dall’esercito dei Lincesti accampati in assetto di guerra, fissarono anch’essi le tende, sotto gli occhi del nemico. Le fanterie, avversarie si erano attestate su due colli, tra cui si stendeva un piano: vi si gettarono a briglie sciolte le cavallerie e diedero fuoco per prime allo scontro. Un istante dopo Brasida e Perdicca, poiché primi gli opliti lincesti avanzando calavano lungo il pendio per appoggiare l’urto dei cavalli e si mostravano pronti a battersi; diedero anch’essi il segnale d’assalto: giunsero a contatto con i lincesti e li travolsero, abbattendone molti. I superstiti ripararono sulle alture e stettero immobili. Dopo questa fase i vincitori alzarono un trofeo e attesero fermi, per due giorni o tre, l’arrivo degli Illiri che erano per via, assoldati da Perdicca per dare man forte. Mai poi Perdicca concepì il progetto di avanzare direttamente contro i villaggi di Arrabeo, senza altri indugi. Brasida invece in ansia per Mende, preoccupato per lo svantaggio incalcolabile che un tempestivo sbarco ateniese gli avrebbe inflitto in quella località, di malumore per il ritardo prolungato dei mercenari Illiri, era più proclive a ritirarsi, che all’avventura di un’avanzata in territorio nemico.

125. Proprio mentre ribollivano queste discussioni li sorprese la notizia che le truppe Illiriche, tradito Perdicca, si erano date ad Arrabeo: sicché ormai tanto a Brasida che a Perdicca la ritirata parve l’unico sviluppo ragionevole dell’azione. Il nome degli Illiri, gente portata alla guerra, incuteva un rispetto profondo. Ma per via dei dissapori tra i generali, dalle dispute non emerse con risolutezza il momento preciso della partenza. Sopraggiunta l’oscurità, in un attimo uno sgomento improvviso percorse la cavalleria macedone e la folla dei barbari. È un fenomeno frequente nelle grandi armate, questo terrore indefinibile, privo di motivo evidente. Si convinsero che fosse in marcia un nemico molte volte superiore a quello che in effetti sopraggiungeva e credevano da un istante all’altro, di vederselo davanti agli occhi. Di colpo ruppero
le file, e fuggendo ciascuno prese la strada di casa. In principio Perdicca non si era reso conto dei movimenti; ma quando li notò fu costretto a levare le tende prima di potersi incontrare con Brasida (i rispettivi accampamenti erano divisi da un grande spazio). All’aurora Brasida si avvide che i Macedoni si erano dileguati per tempo, mentre gli Illiri e le forze di Arrabeo si congiungevano per dargli addosso. Quindi raccolse anch’egli in quadrato il nerbo oplitico, concentrandovi in mezzo la fanteria leggera: intanto elaborava un piano per ritirarsi. Schierò all’esterno i più giovani, caricati a spiccare la corsa in caso di assalto, e di persona si collocò con trecento soldati scelti alla retroguardia, intendendo proteggere la marcia dei suoi uomini con la tattica di indietreggiare a poco a poco, sempre affrontando e respingendo le puntate offensive delle avanguardie nemiche. Prima che l’avversario li premesse da vicino, Brasida spronò con brevi parole i suoi soldati.

126. “Soldati del Peloponneso! Se non mi cogliesse il sospetto che l’esservi visti isolati di sorpresa, bersaglio di una moltitudine numerosa e aggressiva di barbari abbia diffuso tra voi lo smarrimento, non avrei suggellato le mie parole di conforto, come ora mi dispongo a fare, con alcune istruzioni. Ma ora, di fronte alla diserzione dei nostri alleati e alla folla dei nemici, cercherò d’imprimere nella vostra memoria con una traccia concisa e un cenno d’incoraggiamento le regole di condotta cui, assolutamente, dovete attenervi. In guerra, è dover vostro d’essere intrepidi non per l’intervento al vostro fianco, su ogni terreno di battaglia, di forze amiche, ma per il valore che in voi spira innato; quindi v’è estraneo il sentimento di timore di fronte alle schiere avversarie, anche se immense. Poiché voi non provenite da stati simili ai loro; nei vostri non sono i molti a dominare su una scelta minoranza, ma piuttosto i pochi a reggere le sorti dei propri popoli: e questo potere non l’acquistarono che con la superiorità bellica. Riguardo ai barbari che ora, per inesperienza, temete, dovreste invece convincervi, sia per la prova che ne avete avuto un tempo sostenendo l’urto di alcuni tra loro, i Macedoni, sia per quanto li conosco io per mia propria riflessione e per voci sentite da altri, che non costituiranno un ostacolo seriamente impegnativo. Infatti un chiarimento illuminato, un’interpretazione al tempo giusto su quelle che, pur essendo in verità le lacune più clamorose di un apparato bellico nemico, ne appaiono tuttavia come le armi più micidiali, di norma rincuorano il soldato e gli ridanno ali: per contro, se il nerbo nemico possiede doti particolari di solidità, d’inquadramento, si corre il rischio, non avvertiti a tempo, di cozzarvi contro con audacia troppo disinvolta. È l’attesa dell’urto che rende temibili questi barbari, per chi non vi ha confidenza: lo spettacolo del loro numero è agghiacciante, insopportabile il volume di grida che riescono a cacciare, e le armi scosse all’aria infondono il senso di un sinistro incubo. Impressioni che si dissolvono quando, corpo a corpo con chi sostiene il primo impeto, si svela la loro autentica figura di combattenti. Non possiedono l’abitudine e il concetto di allineamento: perciò vinti dalla pressione nemica disertano senza vergogna da un posto all’altro. La fuga e l’assalto per loro sono fonte identica di onore, sicché il coraggio individuale non si afferma con una verifica netta (così la loro sciolta e personale tecnica di combattimento può sempre offrire, a chiunque un degno pretesto per scamparla). Perciò ritengono più sicuro tentare di intimorirvi da lontano, senza rischio diretto, che farsi sotto a saggiare le vostre armi: altrimenti anteporrebbero quella tattica a quelle cerimonie. Ormai vedete chiaro che in complesso quel loro preambolo minaccioso, visto in una prospettiva concreta, sfuma in un miserabile spauracchio: una furia molesta solo all’occhio e all’udito. Opponetevi ferrei al colpo e, al momento opportuno, riprendete imperturbabili e con disciplina la ritirata. Guadagnerete presto un riparo più solido e, per l’avvenire, rammenterete che queste torme scomposte si contentano di pavoneggiarsi a distanza, simulando coraggio con quei gesti truci rivolti a chi respinge il loro primo slancio solo con chi si flette sotto la loro spinta mostrano esultando la tempra dei propri spiriti: alle costole dei fuggiaschi, sentendosi fuori tiro.”

127. Dopo aver così acceso la sua armata, Brasida comandò la ritirata. A questa scena i barbari con urla altissime, in disordine, gli rovinarono addosso, convinti che fosse in rotta e che agguantandolo lo avrebbero sterminato. Ma in qualunque punto tentassero di trafiggere l’esercito, le truppe d’assalto, fulminee, volavano a frantumare l’incursione. Brasida in persona manovrava i contrattacchi delle squadre scelte, se l’assalto minacciava di farsi troppo pungente. Al primo slancio, con viva sorpresa dei barbari, i Peloponnesi stettero fermi. Agli impeti successivi non retrocedevano di un passo e raddoppiavano con vigore i colpi di risposta; quando invece il nemico manteneva le distanze, riprendevano con cal ma a ritirarsi. A questo punto i più tra i barbari rinunciarono alla tattica di disturbo contro i Greci di Brasida, inefficace in una piana così aperta e, dislocata una massa dei loro a molestarli tallonandoli senza respiro, il resto della moltitudine si lanciò di corsa sulle tracce dei Macedoni fuggiaschi, massacrandone quanti cadevano in loro mano; e riuscirono a sopravanzarli, sbarrando in tempo l’angusto valico tra due colli che immette nel territorio di Arrabeo: sapevano che Brasida non disponeva di altra via per ritirarsi. E proprio mentre Brasida s’avvicina al punto più difficile e delicato del passaggio, lo chiudono in cerchio per tagliargli ogni strada di salvezza.

128. La mossa non gli sfuggì; impose ai suoi trecento il compito di gettarsi di corsa su quella tra le due alture che gli pareva più accessibile: con quanto fiato ciascuno aveva, trascurando pure l’ordine di schieramento. Dovevano poi tentare di scalzare i barbari che si erano già trincerati sul colle, prima che a quelli si congiungessero anche gli altri reparti incaricati di procedere al loro accerchiamento. I trecento scalarono il colle e distrussero le postazioni nemiche: il grosso dell’armata greca poté ormai mettersi più comodamente in marcia per valicare l’altura. Poiché i barbari tremarono avvistando il proprio avamposto che a precipizio e in rotta si riversava lungo i fianchi del colle: e rinunciarono definitivamente ad inseguire il nemico, ormai certi che avesse guadagnato le alture, il confine e la salvezza. Quando Brasida si assicurò i colli, procedendo con marcia più sicura giunse quel giorno stesso ad Arnisa, il primo centro del dominio di Perdicca. L’esercito era esasperato per la ritirata inattesa e furtiva dei Macedoni: perciò quando raggiungeva per via qualche loro carro trainato da buoi o qualche altro carico abbandonato a terra (come era naturale e frequente che accadesse, nel corso di un ritirata notturna e per di più agitata dal t rrore) sciogliendo dai primi le bestie le macellavano, dei secondi si impadronivano senz’altro. Da quel momento Perdicca nutri un acceso rancore per Brasida e vi associò il resto dei Peloponnesi, in un’intensa passione d’odio, singolarmente in contrasto con i suoi sentimenti ostili per Atene. Trascurando l’urgenza di certi suoi impegni e gli innegabili profitti di quell’alleanza, si diede allora ad armeggiare con puntiglio per riottenere con gli uni l’intesa, e con gli altri la rottura di ogni rapporto.

129. Brasida, in ritirata dalla Macedonia, a Torone apprese che gli ateniesi erano già in possesso di Mende. Quindi s’arrestò a Torone, ritenendo ormai una follia tentare con le forze a disposizione il passaggio alla Pallene e il colpo di mano per riprendere Mende. Decise pertanto di provvedere alla difesa di Torone. Circa all’epoca della campagna contro la Lincestide gli Ateniesi, per mare, erano comparsi in armi a Mende e a Sicione, come i loro piani e i loro preparativi richiedevano. Erano forti di cinquanta navi, tra cui dieci di Chio, di mille opliti propri e di seicento arcieri; seguivano mille mercenari traci e altri peltasti tratti con una leva in quei territori alleati. Erano strateghi Nicia, figlio di Nicerato, e Nicostrato figlio di Diitrefo. Sciogliendo le vele da Potidea e approdati a Posidonio, si misero in marcia per Mende. Gli abitanti, con i trecento accorsi da Scione in appoggio e con gli ausiliari del Peloponneso, settecento opliti in tutto agli ordini di Polidamida, avevano già ordinato il campo in una solida posizione, fuori la cinta, su un colle. Nicia tentò un’azione contro di loro, alla testa di centoventi soldati leggeri di Metone, di sessanta opliti scelti ateniesi e degli arcieri in massa: si avviò su per il colle seguendo un sentiero e cercando il contatto con il nemico. Ma crivellato di proiettili non riuscì a forzare il blocco. Nicostrato abbordò il colle (dirupato e impervio) con un giro più ampio e conducendo tutto il resto dell’esercito. Ma le schiere si ruppero subito; fu una rotta generale e mancò poco che l’episodio
si trasformasse in una disfatta irrimediabile per le forze ateniesi. In questa giornata, poiché l’esercito di Mende e quello alleato non si erano arresi, gli Ateniesi retrocessero e si attendarono, mentre i Mendei, atteso il calare della notte, ripararono nelle proprie mura.

130. Il giorno dopo gli Ateniesi si trasferirono con la flotta nella zona di Scione, occuparono il sobborgo trascorrendo tutta quella giornata a devastare il contado, senza nessun indizio di resistenza (poiché in città si affrontavano i partiti avversi). I trecento Scionesi, favoriti dall’oscurità, tornarono a casa. Nicia il giorno successivo con metà dell’armata percorse desolandolo il territorio di Scione fino alla frontiera, mentre Nicostrato disponeva il resto in un campo eretto di fronte alla porta settentrionale della città, per cui si va a Potidea. All’interno della cinta, in perfetta corrispondenza, si situava lo spazio destinato ai Mendei e ai loro alleati per concentrarvi le truppe: quindi Polidamida, pronto a battersi le schierava incitandole all’uscita. Ma, a causa dei partiti politici in urto, un esponente dei popolari alzò contro la sua voce, proclamando che non intendeva partecipare alla sortita e che i suoi principi non gli intimavano affatto di battersi. Contestazione cui Polidamida replicò afferrando un braccio all’interlocutore e scuotendolo energicamente. I democratici non attesero altro: furenti sguainarono i ferri e assalirono i Peloponnesi e gli altri che, parteggiando per costoro, avevano intralciato il passo al partito del popolo. L’aggressione, la sorpresa, il terrore alla vista delle porte che intanto venivano schiuse agli Ateniesi sconvolsero gli Spartani che si dispersero fuggiaschi. Pensarono subito a una trama segreta, a un assalto proditorio, preparato da tempo. Alcuni, scampati al fulmineo eccidio ripararono trafelati all’acropoli ove già era collocato in precedenza un quartiere esclusivamente per loro. Intanto, gli Ateniesi (visto Nicia che, di ritorno dalle sue incursioni marciava già nelle vicinanze della città) irruppero in Mende. Sfruttando la circostanza che le porte non erano aperte in virtù di un regolare accordo, l’armata al completo si rovesciò nella città, ritenuta conquista bellica, per metterla a sacco. Gli strateghi a fatica li frenarono: avrebbero massacrato anche la popolazione. Dopo questi eventi gli Ateniesi imposero ai Mendei di istaurare il regime politico e i diritti civili consueti e di processare con un giudizio del tutto autonomo quelli che ritenevano colpevoli della ribellione. Un duplice baluardo cinse le truppe trincerate sull’acropoli, fino al mare; dispostovi un presidio, ristabilito l’ordine e il proprio potere a Mende, gli Ateniesi puntarono su Scione.

131. Da Scione uscirono ad affrontarli gli abitanti e i Peloponnesi, che si attestarono su un colle fortificato di fronte alla cinta di mura. Essi sapevano che isolare la città con una barriera era impossibile, se il nemico non prendeva proprio quel colle. Con un attacco violento e uno scontro prolungato gli Ateniesi scalzarono dal colle gli occupanti: ordinarono l’accampamento, e elevato un trofeo provvidero ai materiali per costruire il muro destinato a bloccare Mende. Non molto dopo (il lavoro già ferveva) le truppe di rinforzo bloccate nella rocca di Mende sfondando a viva forza il cerchio di reparti nemici che li presidiava, riuscirono di notte a guadagnare la marina e filtrando, senza suscitare allarme, attraverso il campo avversario che circondava Scione, penetrarono in quella città.

132. Mentre si lavorava al muro per serrare Scione, Perdicca, per voce di un araldo mandato alla presenza degli strateghi ateniesi, s’impegna a un’intesa con Atene. Lo infiammava il rancore contro Brasida, scaturito in seguito alla ritirata dal territorio dei Lincesti. E a quella data risalivano i suoi primi maneggi con Atene. Proprio in quei giorni lo spartano Iscagora si accingeva a condurre da Brasida, per via terrestre, un esercito. Ma Perdicca, sia perché Nicia lo spingeva dopo la firma del trattato a mostrare tangibilmente qualche segno indubitabile della sua fedeltà per Atene, sia perché si proponeva personalmente di troncare i movimenti di truppe del Peloponneso sul suo suolo, fece pressione sui suoi amici tessali, poiché i suoi rapporti con i maggiorenti di quel popolo si mantenevano sempre calorosi, e ostacolò tanto la spedizione e ogni preparativo che gli Spartani si astennero dal tentare il passaggio attraverso la Tessaglia. Comunque è sicuro che solo Iscagora Aminia ed Aristide riuscirono a giungere da Brasida, mandati da Sparta a.sorvegliare coi propri occhi lo stato delle operazioni. Con uno strappo alla legge, costoro condussero anche alcuni giovani da Sparta affinché Brasida li ponesse al governo delle città occupate, evitando di affidarle al primo venuto. Brasida assegnò quindi Anfipoli a Clearida figlio di Cleonimo, e Torone a Pasitelida figlio di Egesandro

133. Nella medesima estate i Tebani atterrarono la cerchia di Tespie, imputandole un sentimento di affetto per Atene. In realtà era questo un loro sogno, da antico tempo: e l’occasione si era offerta propizia, poiché nella battaglia contro gli Ateniesi la morte aveva falciato il fiore della gioventù di Tespie. Nella stessa estate s’incendiò anche il tempio di Era in Argo: la sacerdotessa Criside, dopo aver posto una lampada accesa accanto alle corone appese nel santuario s’era addormentata: sicché ogni arredo e il tempio arsero e fiammeggiarono, e nessuno se ne avvide. Quella notte stessa Criside riparò a Fliunte, temendo la reazione degli Argivi; costoro le sostituirono una nuova sacerdotessa, rispettando le sacre consuetudini, di nome Faenide. Da otto anni durava questa guerra e il nono era già a mezzo, quando Criside fuggì da Argo. Sul finire dell’estate il muro che circondava Scione era ormai perfezionato e gli Ateniesi, lasciatovi un presidio, rimpatriarono con il resto dell’esercito.

Tucidide (Atene, ca. 460 a.C. – dopo il 397 a.C.) è stato un generale e storico greco antico, nonché uno dei principali esponenti della letteratura greca grazie al suo capolavoro, La Guerra del Peloponneso.

Questo accurato resoconto sulla grande guerra tra Atene e Sparta (431 – 404 a.C.) è considerato – in termini di modernità – uno dei maggiori modelli narrativi dell’antichità, sicuramente uno dei primi esempi di analisi degli eventi storici secondo il metro della natura umana, con l’esclusione quindi dell’intervento di ogni divinità.

Come è nata Scione – Il mito

Etilla, sorella di Priamo sopravvisse alla guerra di Troia e alla fine fu fatta prigioniera insieme alle sue sorelle Medesicasta e Astioche.

I greci le presero e partirono per tornare a casa. Il lungo viaggio fu percorso via mare e la ragazza cercò di coinvolgere tutte le schiave della nave per bruciarla.

Riuscendo nel loro intento i greci dovettero obbligatoriamente salpare sulla terra a loro più vicina e fondarono la città di Scione.

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